L’EREDITÀ UMANA E SPIRITUALE DI PADRE MATTA EL MESKIN
nel decimo anniversario del suo passaggio in cielo
Epiphanius di San Macario*
Sua santità papa Tawadros II, papa di Alessandria e patriarca della predicazione di san Marco, nel benedire questa iniziativa e nell’intercedere per quanti collaborano al suo felice esito si unisce spiritualmente a questa iniziativa benedetta con la quale commemoriamo un anniversario che ci sta molto a cuore. Dieci anni fa, nel 2006 lasciava questo mondo padre Matta el Meskin, il padre spirituale del Monastero di San Macario a Wādī al-Naṭrūn, nel deserto occidentale egiziano. Ma prima di partire ha lasciato ai suoi figli spirituale una ricca eredità umana e spirituale che costituisce un tesoro da custodire per la chiesa universale. A essa ancora attingiamo e non abbiamo la pretesa di averla totalmente assorbita o di averne compreso tutte le dimensioni di cui è costituita. In questo testo mi limiterò, come discepolo che da lui ha imparato molto, a quattro ambiti nei quali ritengo che l’opera di Matta el Meskin abbia avuto grande influenza.
Matta el Meskin e l’apertura verso la chiesa universale
È difficile per coloro che non sono addentro alla storia contemporanea della chiesa copta ortodossa comprendere quanto padre Matta el Meskin abbia inciso sull’opinione che i copti hanno nei confronti delle altre chiese, sulla vita monastica e sugli studi patristici e biblici in Egitto.
Verso la metà del xx secolo prese avvio in Egitto il movimento delle scuole della domenica, guidato dall’arcidiacono Habib Girgis, canonizzato dalla chiesa copta ortodossa nel 2013. L’eredità lasciataci da questo movimento consiste in una serie di scritti apologetici ed esegetici, provenienti essenzialmente da altre realtà ecclesiali. In quell’epoca il lettore copto di lingua araba non aveva a disposizione studi patristici o esegetici di rilievo, eccezion fatta per alcune pubblicazioni tradotte dalle opere di autori protestanti americani. Gli scritti più importanti e diffusi erano i commenti biblici del pastore battista inglese Frederick Brotherton Meyer (1847-1929) e quelli del ministro presbiteriano Matthew Henry (1662-1714). Su questi scritti si è formata la gran parte della gerarchia ecclesiastica di quel periodo. Nel campo degli studi teologici la chiesa conosceva soltanto il testo dell’arciprete Mikhail Mina (1883-1956), preside della scuola dei monaci in quel periodo, dal titolo ‘Ilm al-lāhūt (Teologia): scritto nel 1938, seguiva il metodo teologico occidentale noto come teologia sistematica.
Nel 1952 padre Matta el Meskin, soltanto tre anni dopo aver consacrato la sua vita al monachesimo, pubblicò il suo primo libro: Ḥayāt al-ṣalāh al-’urṯūḏuksiyya (La vita di preghiera ortodossa)[1]. Il libro ebbe un’eco grandissima presso i lettori arabofoni dentro e fuori dall’Egitto, tanto che George Khodr, metropolita greco-ortodosso del Monte Libano, affermò che quella era la prima pubblicazione in epoca moderna di un autore copto alla cui scuola si mettevano gli antiocheni.
Questo libro non fu semplicemente un saggio sulle radici della spiritualità ortodossa ma rappresentò una vera e propria finestra dalla quale i copti potevano vedere il loro passato spirituale, patristico e monastico. Esso ha segnato enormemente la vita di migliaia di copti, molti dei quali occuparono successivamente posti di responsabilità all’interno della chiesa. Ha inciso anche su molti movimenti monastici al di fuori dell’Egitto, soprattutto negli ultimi anni, dopo essere stato tradotto in inglese, francese, italiano, tedesco e in altre lingue.
Probabilmente la cosa più importante che questo libro offre e che ha avuto tale grande impatto di cui non ci siamo resi conto se non dopo molti anni, è il florilegio di detti di padri della chiesa non copti, cioè appartenenti alla chiesa universale, che erano sconosciuti alla chiesa egiziana, come san Gregorio Magno, san Giovanni di Damasco, san Serafim di Sarov. Ciò ha aperto ai copti una prospettiva del tutto nuova sulle altre chiese sorelle. Dopo averle guardate per lunghi anni come ostili a noi, ecco che ci ritroviamo a leggere le agiografie e le parole dei loro santi, imitandone la vita. Il libro è stato come un monito rivolto a noi, che ci ha invitato ad accettare l’altro: cosa che, a tutt’oggi, i dialoghi ecumenici sono stati incapaci di realizzare.
Padre Matta el Meskin, all’epoca, comprese l’importanza di questo libro, tanto che nel 1968, nell’introduzione alla seconda edizione, commentando le parole del metropolita George Khodr scriveva:
Dio ha scelto questo libro affinché contenga una parola di riconciliazione e sia un punto di incontro, non sul piano del dialogo intellettuale o della disputa teologica, ma su quello dell’unità della vita spirituale e delle manifestazioni della fede che, superando i limiti espressivi, giunge alla luce della verità vissuta di Dio[2].
Padre Matta el Meskin citava spesso nelle sue omelie nomi di santi occidentali che avevano influenzato la sua vita spirituale e monastica, quali santa Teresa di Gesù bambino e san Francesco d’Assisi. Questi scritti e queste parole hanno lasciato un segno profondo nella vita dei copti, che hanno iniziato a guardare ai santi della chiesa universale con uno sguardo diverso, immersi nella sensazione profonda dell’unità del corpo di Cristo. La nostra presenza ora come copti in un monastero di una chiesa sorella è uno dei frutti di questi scritti. Allo stesso modo, la presenza continua tutto l’anno di monaci e di monache di chiese diverse nei monasteri della chiesa copta è anch’essa frutto dello spirito d’amore e di comprensione reciproca che gli scritti di padre Matta el Meskin hanno piantato dentro di noi.
Ricordo che, nel 2012, sono venuto in Italia per la prima volta per prendere parte al convegno internazionale di studi copti organizzato dall’Associazione internazionale di studi copti, abbiamo visitato il duomo di Milano. Una volta all’interno, abbiamo incontrato alcuni canonici responsabili del duomo. Non appena hanno saputo che venivamo dall’Egitto, la prima domanda che ci hanno rivolto è stata: “Conoscete padre Matta el Meskin?”. Siamo rimasti esterrefatti, non ce l’aspettavamo. Il vescovo a capo della delegazione egiziana ha fatto segno verso di me: “Questo è un suo figlio spirituale”. I canonici si sono avvicinati a me, mi hanno baciato e salutato con grande calore. Quando abbiamo chiesto loro come mai ci avevano fatto questa domanda ci hanno risposto: “Siamo discepoli di padre Matta el Meskin. Nel nostro convento leggiamo quotidianamente i suoi libri”. Allora ho capito l’importanza dell’opera di traduzione dei suoi scritti in italiano portata avanti dal Monastero di Bose con grande competenza ed eleganza, che ha dato la possibilità ai nostri fratelli della chiesa di Roma di conoscere la chiesa copta.
Padre Matta el Meskin e il rinnovamento monastico
All’inizio della vita monastica di padre Matta i monasteri copti erano in uno stato penoso. Il numero dei monaci era notevolmente ridotto e alcuni edifici monastici erano fatiscenti, soprattutto al Monastero di San Macario. Nei monasteri non esistevano monaci laureati e soltanto pochi erano impegnati negli studi copti o biblici. Sin dal primo giorno di vita monastica padre Matta fu risoluto a vivere una vita monastica che, riscoprendo gli scritti di santi monaci come Antonio, Macario e Pacomio, avesse un fondamento biblico e nella tradizione. Nel suo primo scritto monastico, al-Qiddīs ’anṭūniyūs nāsik ’inğīlī (Sant’Antonio, asceta secondo il vangelo)[3], ha messo in luce il fondamento evangelico su cui si fonda la vita monastica, senza il quale è facile smarrirsi.
Successivamente ha iniziato a rifondare nel concreto la vita monastica mettendo insieme vita di solitudine, così come l’ha tramandata Macario, e vita di comunione, secondo l’insegnamento lasciatoci da Pacomio. Abuna Matta ha ripristinato, dopo che era sparito dai nostri monasteri da centinaia di anni, il pasto dell’agape attorno al quale si radunano quotidianamente i monaci, considerandolo un rito monastico genuino che unisce insieme i monaci attorno al pane dell’amore. Sono stato molto felice quando i monaci di Bose mi hanno invitato a comunicare, nel loro refettorio, alla tavola monastica dell’amore. È stata per me una grande benedizione. Ho sentito in loro lo stesso spirito di comunione che ci ha insegnato abuna Matta, il quale diceva sempre che la comunione all’unica tavola è prosecuzione della comunione eucaristica.
Inoltre, padre Matta ha posto le fondamenta del lavoro monastico a cui tutti i monaci del monastero in grado di farlo devono attendere, essendo convinto che il monaco deve potersi mantenere economicamente e mettere a disposizione dei bisognosi il guadagno eccedente, secondo il comandamento dei padri del monachesimo.
Padre Matta el Meskin e l’educazione ecclesiale
Gli scritti di padre Matta el Meskin hanno generato, nella chiesa copta, un notevole cambiamento nel campo dell’educazione. La vera ragione alla base di questo cambiamento è che padre Matta el Meskin non è stato allievo della teologia neocopta contemporanea che era diffusa al suo tempo. Infatti, per una disposizione divina – come lui stesso afferma – riuscì a ottenere un’antologia di detti patristici tradotti in inglese che lesse voracemente. Il pensiero dei padri lo plasmò a tal punto che la sua vita prese i tratti delle agiografie dei santi della chiesa. È stato così che i suoi scritti hanno il sapore degli scritti dei padri della chiesa senza necessariamente trovarvi citazioni letterali. Per la prima volta nella chiesa copta contemporanea leggiamo scritti sullo Spirito santo, sulla sua discesa e abitazione in noi e sulla sua opera di guida nella nostra lotta spirituale. Come risultato diretto di questi scritti, l’idea di lotta nella vita monastica è mutata. L’ascesi monastica è diventata il frutto dell’opera dello Spirito santo in noi e l’ascesi spirituale offerta eucaristica elevata a Dio quotidianamente come riconoscimento, da parte nostra, della redenzione da noi ottenuta per mezzo del sacrificio della croce. Non è questo ciò che proclamava sant’Antonio il Grande nelle sue lettere e nei suoi detti ai monaci, suoi figli spirituali?
Stessa cosa si dica dell’idea che padre Matta el Meskin aveva delle feste cristiane. La nascita del Signore Gesù rappresenta la nascita dell’uomo nuovo; il suo battesimo e la discesa su di lui dello Spirito santo nel Giordano sono il battesimo della nuova creazione e la sua riconciliazione con Dio in vista dell’inabitazione eterna, in se stessa, dello Spirito santo; la croce del Signore è la nostra croce, perché eravamo in Cristo, uniti con lui. Perciò quando è risorto dai morti, siamo tutti risorti in lui: “Sono stato crocifisso con Cristo” (cf. Gal 2,20), “Mi ha fatto risorgere con lui e mi ha fatto sedere con lui nei cieli” (cf. Ef 2,6). Non è questa l’incarnazione e la redenzione così come ce l’hanno spiegata i padri e i santi della chiesa?
Di questa prospettiva patristica sono impregnati tutti gli scritti di padre Matta el Meskin e il lettore cristiano, al di là della sua appartenenza ecclesiale, lo percepisce. Sa per certo che questi scritti lo riguardano da vicino. E così, ancora una volta, a causa di questi scritti, viene a crearsi un’unità nascosta tra molti lettori. Noi figli spirituali abbiamo toccato con mano nella nostra vita l’unità e la comunione di amicizia tra persone di diverse chiese e siamo stati testimoni di un grande spirito di amore da parte dei nostri fratelli delle altre chiese.
Padre Matta el Meskin e l’unità tra le chiese
Nel 1965 padre Matta el Meskin scrisse un articolo dal titolo “al-Wiḥda al-masīḥiyya” (L’unità cristiana)[4], nel quale propose le sue idee e la sua visione riguardo all’unità dei cristiani e alle modalità attraverso le quali essa può realizzarsi. Affermava di diffidare di un’unità fondata su una spinta affettiva a gloria degli uomini e a esaltazione dell’ego umano: si sarebbe troppo simili a chi, nell’antichità, tentò di creare un’unità costruendo la torre di Babele, e sappiamo che il risultato fu lo sgretolamento e la divisione. Non era d’accordo neanche con un’unità che si basi su processi di coalizione nei quali il debole si fa forza del forte e quest’ultimo si sente ancora più forte e potente. L’unità auspicata deve avvenire su un piano divino, quale risultato inevitabile dell’unione dell’uomo con Dio. Ovvero come risultato del primo comandamento di Dio: “Ama il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutto il tuo pensiero”, e del secondo, simile al primo: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (cf. Mt 22,37-39). Il secondo comandamento dipende dal primo, senza il quale non avrebbe alcun valore. Dice padre Matta el Meskin:
La via che porta all’unione con Dio non è una via a senso unico che termina esclusivamente in Dio. Al ritorno, essa riconduce verso il prossimo, lo straniero, verso il nemico e verso tutto il creato. Colui che si unisce a Dio si impegna di conseguenza a studiare in quale modo egli possa unirsi a tutti e non si dà riposo fino a quando quest’unione non sia compiuta[5].
Poi, nel 1972, scrisse un articolo nella rivista libanese dei greco-ortodossi al-Nūr nel quale afferma:
L’incompletezza della cattolicità della chiesa e dell’unità tra le chiese che perdura fino a ora impone a noi tutti non di riesaminare la nostra teologia, perché essa è estremamente sincera e fedele. Dobbiamo, invece, a partire dalla nostra corretta teologia, riesaminare noi stessi e correggere l’idea che abbiamo di Dio, il quale è Padre unico di tutta l’umanità, e la comprensione che abbiamo di Cristo, il quale è unico Salvatore e Redentore di tutti coloro che invocano il suo nome, che ha adottato tutta l’umanità a Dio senza distinzioni. Poi dobbiamo correggere il nostro modo di amare e rivolgere il nostro amore a tutti esseri umani, ogni essere umano, in quanto necessariamente nostro fratello, anche quando ci si dichiara nostro nemico[6].
Poi, per affermare che l’unità non significa rinuncia alla fede, nel 1984 scrive un libricino intitolato al-Wiḥda al-ḥaqīqiyya sa-takūn ’ilhāman li-l-‘ālam (La vera unità sarà ispirazione per il mondo)[7] nel quale offre una semplice prospettiva suddivisa per fasi in vista dell’unione tra calcedonesi e non calcedonesi:
- L’abrogazione reciproca e simultanea delle scomuniche perché la scomunica è contro la volontà dello Spirito santo ed è stata proclamata perché le chiese non conoscevano lo spirito e la coscienza le une delle altre e a causa dell’attaccamento alla lettera e non allo spirito.
- Reciproco e simultaneo riconoscimento dottrinale tra calcedonesi e non calcedonesi basato sull’essenza e non sulla forma del contenuto, cioè sulla base della fede nella salvezza e nella vita eterna che entrambe le dottrine ritengono procedere da Gesù Cristo. Egli è all’opera in ciascuna dottrina, malgrado le differenze d’enunciazione.
- Avvio di un dialogo sulle espressioni del contenuto, in modo da dissipare i malintesi mediante la spiegazione non togliendo o aggiungendo qualcosa all’enunciato della dottrina consegnata letteralmente dalla tradizione di ognuna delle chiese. Si avrebbe così una formula di riconciliazione che corrisponderebbe all’unità di comunione e di spirito, senza minacciare la storia del dogma né gli scritti e i concili che la fondano[8].
Padre Matta el Meskin credeva che l’unità tra cristiani potesse realizzarsi in primo luogo non mediante il dialogo ecumenico ma attraverso i santi di ogni chiesa, i quali, con le loro preghiere e la loro vita, ispireranno i leader delle chiese su come raggiungere l’unità. Insieme a padre Matta el Meskin, preghiamo per la nostra unità in Cristo Gesù, affinché con le nostre preghiere, la nostra vita e la nostra unità di cuore in Cristo Gesù, il Signore realizzi per noi l’unità in lui e tra di noi. Il nostro essere stati insieme a Bose in un unico spirito, nonostante la disparità di provenienza ecclesiale, non è stata che una piccola icona della chiesa di Cristo che desideriamo: “Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21).
Infine, preghiamo affinché il monachesimo riscopra le sue radici, così come ha ardentemente desiderato abuna Matta e come ha tentato di fare per tutta la sua vita. Ciò è quanto si augura anche sua santità papa Tawadros II il quale ha ripetutamente espresso questo desiderio. Non c’è, infatti, rinascita della chiesa senza rinascita della vita monastica.
* Discepolo di Matta el Meskin, vescovo e abate del Monastero di San Macario il Grande nel deserto di Scete. Traduzione dell’originale arabo di Markos el Makari.
[1] Cf. HS (tr. it. parziale: EP).
[2] Matta el Meskin, “Muqaddimat al-ṭab‘a al-ṯāniya” (Introduzione alla seconda edizione), in HS7, p. 9.
[3] Cf. Id., al-Qiddīs ’anṭūniyūs nāsik ’inğīlī (Antonio, asceta secondo il vangelo), Wādī al-Naṭrūn 1985 (tr. it.: Antonio il Grande, Secondo il vangelo. Le venti lettere di Antonio, a cura di Matta el Meskin, Magnano 1999).
[4] Tr. it.: Matta el Meskin, “L’unità dei cristiani”, in CA, pp. 275-287.
[5] Ibid., p. 279.
[6] Id., “Masīḥ wāḥid wa-kanīsa wāḥida ğāmi‘a” (Un solo Cristo e una sola chiesa cattolica), ripubblicato in Id., al-Wiḥda al-masīḥiyya (L’unità cristiana), Wādī al-Naṭrūn 19853, p. 22.
[7] Cf. Id., al-Wiḥda al-ḥaqīqiyya sa-takūn ’ilhāman li-l-‘ālam (La vera unità sarà ispirazione per il mondo), Wādī al-Naṭrūn 1984 (tr. it.: Id., Quale unità tra i cristiani?, Magnano 1992).
[8] Id., al-Wiḥda al-ḥaqīqiyya sa-takūn ’ilhāman li-l-‘ālam, pp. 8-9 (cf. Id., Quale unità tra i cristiani?, pp. 4-5).